Psichedelia e trauma transgenerazionale

Proponiamo qui di seguito l’intervento tenuto da Carolina Camurati nel corso della terza edizione degli Stati Generali della Psichedelia in Italia (SGPI21) del 10-12 dicembre scorso. Altri interventi e materiali, insieme ai video integrali delle tre giornate, sono disponibili in un gruppo privato su Facebook, accessibile tramite richiesta con l’apposito modulo e relativo contributo economico a sostegno della rete-progetto Psy*Co*Re. Grazie!

Quando si parla di medicina psichedelica facciamo riferimento a quella branca di studi e ricerche scientifiche in corso, circa gli effetti delle varie sostanze psicotrope chiamate comunemente “psichedelici” sulla coscienza e a dispetto di certe condizioni psicopatologiche. In questo settore che va sviluppandosi da qualche decennio – dalla ripresa degli studi interrotti nel 1971, ovvero l’anno in cui si data l’inizio della war on drugs – capita di sentir spesso parlare di PTSD, cioè il disturbo da stress post-traumatico, categoria bersaglio dei più moderni trattamenti con composti psicoattivi quale psilocibina o MDMA. Disturbo e che è stato, insieme alle depressioni farmacoresistenti e alle malattie terminali, la porta d’accesso per lo sviluppo di terapie d’avanguardia non più ostacolate dalla morale proibizionista.

Come è noto, questa sindrome ha visto la sua insorgenza a seguito del ritorno dalle spedizioni militari estere di veterani di guerra (Vietnam in primis) perseguitati dall’inquietudine della morte assistita o protratta in battaglia. Tale sindrome si manifesta dunque in chiunque sia stato vittima di un forte shock e di un trauma al cui seguito vengono ostentati meccanismi difensivi ricorrenti, con sintomi da un lato intrusivi (..) e dall’altro sedativi (..). La diagnosi da disturbo da stress post-traumatico ha dunque un’origine sociopolitica, e negli Stati Uniti l’epidemiologia sfiora oggi fino al 9% della popolazione locale.

Prendiamo adesso in considerazione il fenomeno del turismo ayahuasquero o del fiorire, in concomitanza al cosiddetto Rinascimento psichedelico (che si riferisce però alla ripresa degli studi nell’ambito della ricerca scientifica e della terapia assistita), di numerosi resort e wellness retreats, centri e cliniche private (..), che prevedono per gli utenti una serie di trattamenti o esperienze con l’utilizzo di piante e sostanze psicotrope (con un biglietto a cifre profumatamente corrisposte da chi ne prenda parte). Questo denota da un lato l’incredibile domanda di terapie alternative o esperienze dirette di guarigione da parte del pubblico, in un tentativo di riappropriarsi dell’ultima parola circa la propria salute, dall’altro invece una risposta dall’impronta marcatamente capitalistica di esperienze che andrebbero invece a trascendere il proprio accomodamento ed il proprio stile di vita in contesti in cui rimettere in discussione la propria cosmogonia e visione del mondo.

D’altra parte è interessante notare come molti preferiscano approcciarsi a processi salutogenici che si innescano proprio dal “mettersi in viaggio”, per ristrutturare il legame d’appartenenza a questo mondo e a questo presente storico, piuttosto che affidarsi ad una medicina talvolta incapace di dare ascolto e cura a malesseri non altrimenti diagnosticabili. Sono molti infatti a voler elaborare le proprie biografie e strutture traumatiche proprio a partire da queste esperienze, anche se talvolta l’integrazione di questi viaggi con il mondo comune e la quotidianità risulti difficoltosa ed incostante, in quanto manchevole di quelle comunità che supportino l’utilizzo di questi allestimenti rituali e di questi dispositivi di cura, requisito indispensabile, secondo Ernesto De Martino, per il buon funzionamento dei dispositivi stessi.

Ritornando ora al trauma… oltre a quello innescato da un evento psicologicamente insopportabile e lesivo, rileviamo tra le motivazioni all’utilizzo di psichedelici, il trattamento di un male ben più diffuso anche nella popolazione cosiddetta “sana”, una tipologia di trauma che potremmo definire transgenerazionale, ovvero la traduzione comportamentale e fenomenica di una “ripetizione filogenetica” di un trauma originario (…) che finisce per iscriversi a livello epigenetico e per condizionare sviluppo e metabolismo neuronale (vedasi genealogia, risonanza e campi morfogenetici di Rupert Sheldrake

Ampliando dunque il focus, il trauma mostra il suo volto nell’accezione storico-culturale, come precipitato di una cultura che ci si impone, e la cui linfa vitale però è spesso disseccata tra pieghe dell’abitudine, della tradizione:

..le manifestazioni cliniche di questo trauma possono essere analoghe a quelle del PTSD, ma il fenomeno acquisisce una dimensione intergenerazionale, da cui sfocia la creazione del concetto di Trauma Intergenerazionale. (Berger, 1988).

Mettiamo allora in risalto la doppia natura del trauma: la prima, personale e soggettiva, la seconda, collettiva e politica. Non è sufficiente per un clinico perimetrare la manifestazione di un trauma sulla sagoma dell’individuo, poiché trattasi invece di circoscrivere i molteplici piani d’appartenenza immanenti alla vita di ciascuno, e riallacciare congiunzioni interdipendenti con il circostante, quelle stesse che sono state spezzate o che mai prima di allora erano state attivate.

Non potrebbe altrimenti esser trauma ciò che non recide o non spezza, come l’alea che scaraventandosi, frammenta in membra disgiunte una salma di pezza. E’ sul corpo di ciascuno che si innerva quel vasto e sventagliato tessuto, la salma di pezza, che è lo psichico, ed il trauma è ciò che, fendendolo, ne provoca l’impossibilità di simbolizzare, di conferire significato. L’incontro con il reale, tramite questa ferita, è l’angoscia che sempre ritorna per l’impossibilità di circoscrivere di senso il proprio vissuto. Crisi dunque, ma anche opportunità. Individuazione del residuo e del senso retroattivo.

Che lo psichedelico in queste circostanze si riveli strumento d’osservazione utile alla psicoanalisi o alla terapia, al pari di quel che fu per astronomi e fisici il macroscopio o il microscopio, l’aveva mostrato già al tempo Stanislav Grof. Quel che vorrei qui portare è un incentivo allo sviluppo di teorie e concetti psicodiagnostici che possano rivelarsi utili nell’atto stesso di trattare con quella che potremmo definire la microfisica del trauma, in particolare del trauma transgenerazionale, ovvero quello che sopravvive ai nostri corpi e che si mantiene vivo negli usi e nei costumi delle società di cui facciamo parte.

Per la coscienza ed in quello stato particolare del tempo che è la durata nell’esperienza psichedelica, il lavoro con e sul trauma è particolarmente indicato. Che la cultura sia un congegno da disinnescare lo disse chiaramente Terence McKenna (e ancor prima Herr Freud), mostrandoci intuitivamente come la società civile abbia trascurato lo sviluppo della coscienza nell’umano a fronte di uno sviluppo economico ed espansivo del dominio sul pianeta che ci ospita e sulle risorse che ci mette a disposizione.

E’ il caso di quello che concerne il trauma del femminile, inteso qui come qualità ed archetipo, da sempre presente ma che ancora fatica ad istallarsi nel contemporaneo, all’interno di imprese secolari o di costumi oltremodo storicizzati che questo femminile reprimono o rimuovono.

Leggo una citazione da Stiozzi, tratta dall’articolo del 2016 dal titolo “Le ombre della violenza nelle generazioni di donne. (Orizzonti educativi per diffondere il valore del femminile nella società contemporanea”):

…la comprensione del femminile, come valore oltre che personale anche collettivo, passa attraverso l’integrazione della violenza nella relazione tra le generazioni di donne. L’intimità assume un valore etico che trasforma il gesto femminile in un dispositivo di cura del mondo, capace di trasformare i traumi collettivi, che, non elaborati, sono all’origine del perpetuarsi di una violenza dai tratti primordiali attraverso le generazioni.

L’intimità ha valore dunque, come coltivazione di uno spazio transizionale, in senso winnicottiano, come quella terra di mezzo ove coesiste la dimensione della ragione con la sragione, e il pensiero può contaminarsi con le incredibili figure che sprigionano dall’immaginario. Intimità che è regno e dimora di questa inclinazione femminile del soggetto, luogo dell’incontro e della cura del mondo – ed in cui l’esperienza di attraversamento psichedelico può divenire un potente agente di trasformazione e di riappropriazione soggettiva del proprio corpo.

Perché se negli stati modificati di coscienza la psiche viene scoperchiata anche nei suoi anfratti più segreti, e non per forza di dominio privato o personale, è nell’intimità e nella finitezza del corpo che questa trova poi dimora. L’integrazione dei propri traumi e delle proprie ferite, a partire dal corpo e dai suoi bisogni inascoltati, perché incasellati in una semiotica del sentire e del senso fruibile solo all’interno di una cultura dissociata da tutto il resto, diviene così un imperativo etico che legittima il diritto alla libera coscienza, a che ciascun soggetto possa assumere, nel rispetto della circostanza, lo stato di coscienza che il suo desiderio gli impone. O come suggerito ieri, mutuando Ralph Metzner: il diritto di esplorare la propria coscienza e di riprogettare modelli del reale cangianti. “Disegnare nuove ontologie”. (Falcon)