Etnobotanica 14: Mandragora, magia e farmacologia

MandragoraMITO E STORIA

Il nome Mandragora deriva dal greco antico μανδραγόρας forse derivato dal persiano merdum gija, “pianta umana”, in riferimento alla forma antropomorfa. È una della più antiche e famose “piante magiche” del mondo, e nei miti delle varie culture svolge un ruolo ambivalente tra il benefico e il malefico.

Le illustrazioni dei fiori di loto (Nymphea sp.) ritrovate negli affreschi e nei papiri delle tombe in Egitto spesso comprendono anche immagini di mandragola, per esempio la tomba di Tutankhamon era raffigurato un faraone con due mandragore e una Nymphea in mano [1].
Il botanico e biologo americano William Emboden ha ipotizzato che che fossero utilizzati per indurre una trance sciamanica e nei rituali di cura [2].

Nel Medioevo si pensava che la morte stessa piantasse questa pianta e che prosperasse vicino alle forche dei supplizi dove si nutriva di sangue e dolore. Documenti dell’epoca riportano che nascesse dall’urina di un uomo ingiustamente impiccato per furto. Si credeva che portasse fortuna e prosperità ma potesse anche indurre alla follia se maneggiata in maniera impropria: veniva venduta come un amuleto molto prezioso ma era anche associata alla stregoneria e alle disgrazie [3].

Presso gli Anglosassoni aveva poteri magici contro le presenze demoniache e il suo odore le ripugnava, anche Apuleio nel suo Herbarium parla della possibilità di usarla negli esorcismi.

Il primo a menzionare una cerimonia d’estrazione specifica per questa pianta fu Teofrasto nella sua Historia plantarum: bisognava fare tre cerchi con una spada intorno alla mandragola, quindi si doveva scavare rivolti verso l’Ovest. Un altra persona nel frattempo doveva danzare in circolo e pronunciare delle formule afrodisiache.

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Etnobotanica 13: Ayahuasca e DMT

Identificare la ricetta tradizionale originale dell’ayahuasca nella combinazione dei decotti di Banisteriopsis caapi e Psychotria viridis è un errore. Alcune tribù utilizzano infatti piante diverse: i Matsigenka evitano la viridis considerandola “cattiva” ed usano un altra specie di Psychotria ancora non identificata [1], i Waorani dell’Ecuador si servivano della sola Banisteriopsis muricata (che dovrebbe contenere MAO-I nella liana e triptamine nelle foglie) senza admixture fino al contatto recente con i coloni Quechua [2], sono anche stati trovati decotti contenenti soltanto betacarboline [3].

In base ad una ricerca recente le ricetta odierna si è evoluta nel corso di innumerevoli esperimenti che miravano alla ricerca di una sinergia tra le diverse componenti farmacologiche in particolar modo betacarboline e triptamine. Gli ingredienti di queste combinazioni variavano in base alla disponibilità locale delle piante, i metodi di somministrazione in base alla preferenza culturale specifica: sono stati registrate circa un centinaio di specie appartanenti a 4 famiglie botaniche diverse.

Diversi preparati come il vinho de jurema, yaraque, vino de cebil e le varie chicha allucinogene contano su dati etnografici antecedenti all’ayahuasca che viene menzionata soltanto in documenti relativamente recenti posteriori alla conquista Spagnola [4].

LA PURGA
ayahuascaLe betacarboline di cui sono particolarmente ricchi i decotti di ayahuasca tradizionali hanno proprietà antiparassitarie oltre che emetiche e sono particolarmente utili in Amazzonia dove i parassiti intestinali sono piuttosto comuni.

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Etnobotanica 12: Ruta, una specie psicotropa trascurata

Il genere Ruta comprende circa 10 specie, tutte altamente aromatiche. La graveolens e la chalapensis sono molto comuni nel Mediterraneo e nel subcontinente Indiano, sono molto simili, anche se distinguibili dalla forma delle foglie, e sono state confuse nei testi medievali e di medicina ayurvedica [1].

Ruta Queste piante presentano gli stami piegati verso la parte bassa dei petali durante l’inizio della fioritura, quindi si elevano lentamente verso il centro del fiore permettendo la deiscenza delle antere che abbandonano il centro del fiore prima che il ciclo ricominci per il prossimo stame. E’ stato inoltre osservato che in certi fiori tutti gli stami si alzano simultaneamente per avvolgere il pistillo alla fine dell’antesi dopo aver concluso i movimenti singoli.

Questa sequenza di animazioni prima individuale poi collettiva è la più complessa forma di movimento degli stami nelle angiosperme stando alle conoscenze attuali.
Una ricerca del 2012 ha dimostrato che il movimento singolo promuove la dispersione del polline presentandolo agli impllinatori ed impedisce che le antere deiscenti intralcino il processo, si ipotizza che quello finale collettivo rifletta un adattamento per l’autoimpollinazione ad azione tardiva [2].

ETNOGRAFIA E STORIA

La Ruta graveolens era estensivamente impiegata dagli antichi Greci in cucina; il famoso medico Ippocrate rispettava le sue qualità medicinali, Aristotele ne lodava la potente azione calmante. Mitridate del Ponto la consumò come antidoto per il veleno.
Dioscoride e Plinio il vecchio raccomandavano una pozione a base di ruta ed oleandro come antidoto contro il morso dei serpenti.

Nel Medioevo si credeva potesse migliorare la vista e smorzare la libido, era popolare tra le streghe che la impiegavano come ingrediente magico e le attribuivano un importante valore simbolico. Venne usata per preparare una pozione ritenuta miracolosa contro la peste nera; i giudici la portavano addosso quando entravano nelle carceri, noti focolai infettivi.
I cristiani usavano mazzetti di ruta per spargere l’acqua santa nelle chiese, gli ebrei chassidisti la indossavano come amuleto contro peste, epidemie, magia nera e malocchio.

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Etnobotanica 11: Mulungu, l’ansiolitico della foresta brasiliana

Erythrina poeppigiana Il genere Erythrina comprende circa 115 specie distribuite tra Neotropici, Sud Africa, Himalaya e la parte più meridionale degli Stati Uniti. Sviluppano tutte delle profonde radici girevoli che permettono una rapida crescita, sono organismi pionieri per la successione ecologica in grado di sopravvivere in ambienti poveri promuovendo la formazione dell’humus per le specie più esigenti. Inoltre contribuiscono all’azotofissazione rendendo disponibile l’azoto ammonico (NH3) per le piante vicine [1].

Da citare il caso dell’Erythrina poeppigiana, largamente utilizzata come coltura da ombra per le piantagioni di cacao, che ha anche dimostrato di migliorare la qualità del terreno e della microfauna circostante [2].

ETNOGRAFIA
In Brasile la corteccia di mulugu viene ampiamente impiegata sotto forma di decotto, tintura alcolica o anche semplicemente polverizzato come tranquillante, sedativo, sonnifero, analgesico ed antinfiammatorio naturale [3]. Insieme al frutto viene indicata nel trattamento di tosse, eccesso di muco, vermi ed emorroidi [4].
Nella comunità rurale di Laginhas vicino a Rio Grande do Norte nella regione a Nordest consumano un infuso per lenire il mal di denti [5].
Un decotto a base di corteccia di Erythrina viene consumato dai Tanaca in Bolivia, da Cabecar e  Guaymi in America Centrale e Perù per curare emorragie, dismennorea, oltre che come purgante [6].
Viene usato anche come stimolante della produzione del latte, purgante, insetticida e veleno per pesci.

CHIMICA
Erythrina poeppigiana Ad oggi sono noti oltre 110 diversi alcaloidi isolati dalle diverse Erythrina, per correttezza qui ci limiteremo a quelli specifici per verna e velutina anche se si può ipotizzare che il fitocomplesso sia sicuramente più ricco di quanto attestato dai referti d’analisi esclusivi per queste due sole specie.

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Etnobotanica 10: Akuamma, un seme oppioide

Akuamma La Picralima nitida è stata descritta per la prima volta nel 1985 dal botanico austriaco Otto Staptf come Tabernaemontana nitida. Un anno dopo il francese Luis Pierre l’ha inserita in Picralima, un nuovo genere creato basandosi sul sinonimo già in uso, P. klaineana.
Il nome Picralima deriva dal greco πικρός, che significa amaro, probabile riferimento all’amarezza dei semi della pianta.
Questo genere includeva un tempo anche Hunteria umbellata e Simii, ma ad oggi è monospecifico [1].

ETNOBOTANICA
Akuamma Nella medicina popolare dell’Africa Occidentale la Picralima nitida viene impiegata nel trattamento di febbre, infezioni, malaria, diabete e dolore [2].
In Cameroon e Guinea il decotto a base di frutto e corteccia della pianta viene consumato contro la tosse o la febbre tifoide. Le genti della tribù dei Fang li masticano per sopprimere la fame durante le lunghe camminate nella foresta [3].
Nella medicina popolare congolese il decotto di corteccia d’akuamma si beve come purgante e rimedio per l’ernia, mischiato ad altre piante viene impiegato contro la gonorrea.
Nella zona più occidentale della Nigeria il frutto viene indicato nel trattamento dell’asma [4].
In Costa d’Avorio i semi impastati con l’acqua vegono assunti in caso di pressione arteriosa alta [5].

 

FITOCOMPLESSO
alcaloidi: akuammina, pseudoakuammina, akuammidina, akuammicina, akuammigina, pseudoakuammigina, akuammilina, akuammenina, picrafillina, picracina, picralina, picralicina, picratidina, picranitina, burnamina, pericallina e pericina.
polifenoli: derivati cumestanici;
terpenoidi: sabinene, terpinenolo, α-selinene, β-cariofillene, β-selinene, α-terpineolo, α-pinene, cimene, eudesmolo, β-cuvebene, β-pinene e α-umulene;
steroli;
flavonoidi;
saponine;
tannini.

Il seme è la parte della pianta più potente e può raggiungere oltre il 5% di alcaloidi del peso secco [6].

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Etnobotanica 9: Amanita muscaria, fungo velenoso o medicinale?

L’Amanita muscaria è una specie complessa comprendente 4 diversi taxa – muscaria var. muscaria, muscaria subsp. flavivolvata, muscaria var. quessowii, muscaria var. inzengae – più altri 3 taxa che venivano considerati specie distinte, breckonii, gioiosa ed heterochroma [1].

La più comune in Europa e in Italia è la muscaria var. muscaria, riconoscibile dal classico cappello rosso e le verruche bianche che la pioggia può lavare via. Secondo Kögl e Erxleben il colore rosso è dovuto alla muscarufina, un derivato terfenilquinonico [2], la cui presenza però non è stata confermata dalle analisi successive. Inoltre si è visto che le tonalità gialle e rosse sono dovute ad un complicato miscuglio di composti molto labili diversi dai terfenilquinoni[3].

A. muscaria giallo/arancioneIn presenza di qualche carenza nello sviluppo del pigmento viola, la muscapurpurina, il fungo tende verso il giallo o arancione piuttosto che il rosso (foto a fianco).

Beringia
Mediante analisi filogenetiche sono stati individuati i 3 principali cladi (Eurasiatico, Eurasiatico-alpino e Nord-Americano) dell’A. muscaria distribuiti simpatricamente nel territorio dell’Alaska (Usa). Ogni specie condivide almeno 2 varianti morfologiche con le altre compatibilmente col fenomeno del polimorfismo ancestrale. Gli autori ipotizzano che si tratti di specie gemelle e non allopatriche, evolutesi in Beringia quindi frammentatesi in Nord America ed Eurasia.
Popolazioni di ciascun clade potrebbero esser sopravvissute nella zona adattandosi al freddo [4].

Infatti da una ricerca successiva si è visto che in effetti l’A. muscaria era già presente in Alaska durante l’ultimo periodo glaciale. Due popolazioni endemiche (aplotipo D in Clade I ed aplotipo D in Clade II) sono state individuate nella foresta boreale della regione interna e nelle foresta pluviale marittima dell’Alaska Sud-orientale e del Pacifico Nord-occidentale.
Molti aplotipi in Clade II erano condivisi con gli esemplari eurasiatici suggerendo un corposo fenomeno migratorio attraverso lo Stretto di Bering e aprendo la possibilità di un colonizzazione postglaciale dall’Asia [5].

Anche le analogie nelle pratiche associate al consumo del fungo fanno pensare a un antenato beringiano comune che accomuna le tribù nord-mericane ed euro-asiatiche.

ETNOMICOLOGIA

USA e Canada
Gli Ojibway (noti anche come Anishinaabe) e altre tribù Algonchine, come gli Innu e gli Abenachi, la impiegavano a scopo divinatorio nei rituali sciamanici. Un padre superiore dell’ordine dei Gesuiti, Perc Charles I’Allemant, scrisse nel 1626 una lettera dal Quebec al fratello in Francia, descrivendo le credenze religiosi dei nativi Algonchini. Riporta che fossero sicuri che una volta morti sarebbero andati in paradiso dove avrebbero mangiato funghi e intrattenuto rapporti sessuali.

Gordon Wasson, il famoso etnomicologo statunitense, dopo aver ricevuto questa notizia dall’amico e collega Claude Levi-Strauss, contattò un certo Nichols presso l’Università del Wisconsin che gli diede il contatto di uno sciamana Ojibway, Kenvaydinoquay. La donna era l’ultimo abitante di una piccola isola nell’area dei Grandi Laghi ed un esperto conoscitore della sua cultura [6].

Si deve a lei il racconto sulle origine dell’Amanita recuperato da un ojibeweg, un disegno tradizionale su una corteccia di betulla che fungeva da riferimento mnemonico per le storie raccontate nelle serate invernali – come la seguente:

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Etnobotanica 8: Acorus calamus, un rizoma aromatico

Acorus calamus DATI ETNOGRAFICI

Mondo antico

Il nome deriva dal termine greco calamos, cioè “canna”, per via della somiglianza con quest’ultima: a quei tempi veniva usato per dare un tocco di odore gradevole agli ambienti chiusi, soprattutto nelle chiese. Il nome del genere Acorus proviene da coreon, una malattia degli occhi diffusasi in Grecia per cui si somministrava il calamo aromatico. Ippocrate ne conosceva le proprietà medicinali, compare anche negli scritti di Dioscoride e Teofrasto.

Gli antichi Romani lo consideravano un potente afrodisiaco e lo associavano a Venere [1]. Alcuni resti di calamo aromatico sono stati rinvenuti nella tomba di Tutankhamen in Egitto [2]. La pianta veniva impiegata nell’antico Egitto per la produzione di profumi, oltre che nel trattamento della linfadenite cervicale [3]. Gli arabi lo lodavano come rimedio per i reflussi gastrici.

Viene menzionato 3 volte nella Bibbia: Dio istruisce Mosè affinchè prepari un olio santo per ungere tabernacolo, Arca dell’alleanza e altri oggetti rituali. La ricetta comprende mirto, franchincenso, cannella, calamo, cassia, galbano e spezie dolci (Esodo 30:23,24,34). Veniva coltivato nei giardini di Salomone (Salomone 4:14) e venduto nel mercato di Tiro in Libano (Ezechiele 27:19). Viene citato anche nel IV papiro di Chester Beatty.

L’Acorus calamus era un ingrediente della pozione d’amore medievale prescritta da Zacutus Lusitanus, famoso medico portoghese. Veniva impiegato dalle streghe nella preparazione del flying ointment insieme a solanacee delirogene ed altre piante.

Nativi americani

Il geografo Americano Sauer scrisse che il tubero di Acorus calamus veniva usato dai nativi americani prima che fosse scoperto dagli occidentali bianchi [4]. Le tribù delle praterie gli attribuivano poteri mistici, e i Pawnee ne cantavano le lodi durante le cerimonie misteriche. Gli sciamani Siouani del Nord Dakota lo utilizzavano nella loro danza sacra. Le tribù Cree e Ojibway lo masticavano durante le lunghe spedizioni di caccia come per alleviare la fame ed avere più energia.

La pianta viene associata al topo muschiato (Ondatra zibethica) che ne va ghiotto. Una leggenda dei Penobscot dice che un il topo avesse detto a un uomo di esserne la radice e dove potesse trovarlo. L’uomo, svegliatosi, andò a raccoglierla e ne fece una medicina per curare le sue genti dalla peste e, forse, anche dal colera.

I Chippewa lo inalavano contro il raffreddore, per i problemi bronchiali in una preparazione inclusiva di Xanthoxylon americanum, Sassafras variifolium e Asarum canadense. Dakota, Omaha, Winnebago e Pawnee lo masticavano o ne facevano un infuso, polverizzato veniva bruciato sulle braci per inalarne il vapore e liberare le vie aree.

I Cree ne facevano un infuso per trattare mal di testa, mal di denti e dismenorrea. I gruppi delle paludi masticavano la radice per curare faringiti ed altri problemi alla gola. Gli Abnaki bevevano il decotto tiepido di calamo come rimedio per meteorismo e flatulenza. I Sioux lo consumavano contro i disturbi gastrici, ne inalavano i fumi per alleviare il mal di testa. Lo applicavano localmente come anestetico e cicatrizzante. Lo masticavano durante le battaglie per instillare coraggio e potenziare la resistenza dei guerrieri. Lo davano ai cani da guardia per renderli più feroci, ci foreggiavano anche i cavalli per farli diventare più veloci.
Le donne Menominee la macinavano insieme a radice di sanguinaria e legno di cedro come rimedio per l’irregolarità mestruale. I Blackfott del Montana lo impiegavano come abortificente. I Meskwaki lo applicavano esternamente sulle bruciature [5].

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Etnobotanica 7: Passiflora caerulea, un potenziale MAO-inibitore

MEDICINA TRADIZIONALE
La Passiflora caerulea veniva coltivata dagli Aztechi che la usavano come pianta ornamentale e come rimedio per disturbi urinari, fratture ossee e contusioni della pelle.

Nella medicina popolare argentina, le foglie vengono consumate per trattare la dissenteria, il frutto come digestivo e la parte aerea come spasmolitico.

Passiflora caeruleaCon foglie e radice preparano anche un decotto contro i parassiti intestinali; la tisana a base di parte aerea viene impiegata come agente antinfiammatorio, ipotensivo, sedativo e diuretico.
Inoltre viene lodata per le sue proprietà antimicrobiche utili nel trattamento di catarro, polmonite [1].

In Brasile è nota come maracujá-laranja per via del colore arancione e viene utilizzata principalmente come sedativo, analgesico ed ansiolitico naturale, ma sono note applicazioni contro scorbuto, ittero, disturbi mestruali e gastrointestinali [2].

Nella medicina popolare delle Mauritius si preparano delle tinture e degli estratti a base di fiore della passione per trattare diverse condizioni nervose.

In Italia la Passiflora caerulea veniva consumata come antispasmodico e sedativo.

FARMACOLOGIA

Ansiolitico, sonnifero, sedativo
La parte aerea di Passiflora caerulea contiene dei flavonoidi non identificati dotati di alta affinità per i recettori delle benzodiazepine, le concentrazioni di questi composti sono troppo basse perchè i dosaggi tradizionali siano efficaci in acuto. Tuttavia sembra che l’assunzione cronica possa incrementare nel tempo i livelli di benzodiazepine nel cervello con conseguente modulazione dell’omeostasi dello stesso [3].

La crisina, un flavone isolato dalla pianta, ha mostrato significativi effetti ansiolitici privi di componente sedativa e miorilassante nei modelli animali agendo come agonista parziale sui recettori delle benzodiazepine [4]. Secondo altre fonti, l’estratto di fiore della passione ha un effetto comparabile all’oxazepam [5].

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Etnobotanica 6: Lactuca serriola e lactucarium

Il nome Lactuca deriva da lactus che in latino identifica il latte. Infatti la pianta, una volta incisa, secerne un abbondante liquido bianco e lattiginoso.

Lactuca_serriola Gli antichi Greci associavano la lattuga selvatica all’impotenza maschile e la servivano durante i funerali. Erodoto la menziona come pietanza degli dei Persiani del 400 a.C..

Gli antichi Romani la usavano come afrodisiaco ed analgesico: si dice che Augusto le avesse dedicato una statua dopo essere stato guarito da una malattia mortale.

Il naturalista Plinio il Vecchio ne descrive le proprietà nella sua Naturalis Historia. Gli Egiziani estraevano dai semi un olio molto pregiato dalle proprietà afrodisiache e promotrici della fertilità oltre che analgesiche e narcotiche.

MEDICINA TRADIZIONALE
Nella medicina Unani la Lactuca serriola, nota come kahu, viene impiegata come sedativo, ipnotico, antisettico, espettorante, antitussivo, purgante, vasorilassante, diuretico ed antispastico. Viene considerata molto efficace contro bronchite, asma e pertosse.

Il lattice essiccato, chiamato lactucarium, viene consumato come rimedio per insonnia, ansia, nervosismo, iperattività, tosse secca, pertosse e dolori reumatici. Si usa anche la parte aerea fresca o essiccata sotto forma di decotto, infuso o tintura alcolica; dai semi si estrae un olio dalle proprietà antipiretiche ed ipnotiche [1].

In Afghanistan selezionano le radici fresche dalle piante fiorite e le incidono lateralmente diverse volte. Quindi le lasciano a mollo per una notte in un recipiente pieno d’acqua a temperatura ambiente, facendo attenzione a proteggerlo dalla luce che danneggia il preparato e lo rende inefficace. L’infuso viene filtrato e consumato prima dell’alba come rimedio per la malaria [2].

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Etnobotanica 5: Ipomea tricolor e alcaloidi ergolinici

Ipomea Le ipomee fioriscono e muoiono in un singolo giorno: per questo sono da sempre simbolo di amore, passione e mortalità. Nel folklore cinese rappresentano gli amanti che si riescono ad incontrare per un solo giorno. Le antiche popolazioni mesoamericane utilizzavano il succo fresco della pianta come fonte di zolfo, necessario per vulcanizzare la gomma che estraevano da alcuni alberi.

Il noto educatore benedettino Pedro Ponce de Leon scrisse che i semi di Ipomea violacea, chiamati Tlitliltzin in lingua Nahuatl in riferimento al loro colore nero, venivano impiegati insieme al peyote e all’ololiuqui distinguendo per la prima volta la Rivea corymbosa dall’Ipomea violacea. Agli intossicati appare un piccolo uomo nero che esaudisce ogni desiderio, altre volte vedono Dio o degli angeli.

L’esperienza si svolge in un luogo appartato con l’ausilio di un guardiano per evitare che abbiamo contatti con altri mentre parla in preda al delirio. Una volta svaniti gli effetti, si chiede cosa avesse detto e la risposta viene considerata come una verità assoluta [1].

Ipomea Viene menzionata da Albert Hofmann nel libro curato insieme a Richard Evans Schultes e Christian Rätsch, Plants of the Gods: Their Sacred, Healing, and Hallucinogenic Powers (1994), come Ipomea violacea ma dall’immagine si vede chiaramente che la specie è invece una tricolor varietà heavenly blue (si nota dalla corolla che non è bianca) [2]. Sono molto simili e secondo alcuni autori sarebbero sinonimi: tuttavia piccole differenze tassonomiche permettono di distinguere due specie appartenenti a sottogeneri diversi, Eriospermum per la violacea e Quamoclit per la tricolor.

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