Comprendere l’esperienza psichedelica: esperienze trasformative e stati mentali “cruciali”

Descrivere un’esperienza psichedelica terapeutica come un’esperienza che catalizza una trasformazione psicologica  positiva è forse il modo più sintetico per comprendere come avviene un processo di guarigione coadiuvato da questo tipo di sostanze. Ciò che rivoluziona il modo di relazionarsi alla realtà può tuttavia dare risultati anche opposti fra loro: dalla crescita personale a (nei casi peggiori) una ricaduta psicotica.

Approfondendo il significato di queste esperienze Robert Carhart-Harris (ex direttore del Centre for Psychedelic Research presso l’Imperial College di Londra, dall’estate passato a dirigere Neuroscape, centro di ricerca multidisciplinare dell’Università della California, a San Francisco), insieme al collega Ari Brouwer, ne ha recentemente proposto un’interpretazione. Secondo loro tali esperienze possono provocare pivotal mental states”: stati mentali “cruciali”, di transizione e cambiamento,  che possono indurre esperienze catartiche, e quindi liberare da una precedente situazione di stress cronico o angoscia, oppure traumatiche. Il differente esito di questi stati mentali dipenderà principalmente dal contesto in cui vengono scaturiti e dalle caratteristiche interne del soggetto che li sperimenta.

La metafora della biforcazione (Carhart-Harris and Brouwer, 2021): l’evento intenso che scatena uno stato mentale trasformativo (indicato nell’immagine come “Pivotal Experience”) attiva il recettore 5HT2A, un recettore attivato anche dalle sostanze psichedeliche. Questa attivazione destabilizza l’equilibro dell’organismo e può sfociare in un’esperienza di crescita o in un trauma. L’esito dipende dal contesto e dalla caratteristiche di chi vive l’esperienza.

Il “contesto” descritto dagli autori integra i concetti di set e setting includendo come variabili il patrimonio genetico, le esperienze infantili, e la trama di relazioni che costituiscono la vita del soggetto e che influiscono il decorso dell’esperienza potenzialmente trasformativa.

I due ricercatori hanno individuato una serie di caratteristiche simili negli stati mentali di transizione (non solo psicologiche, ma anche bio-chimiche e neurali) indotti da situazioni anche molto diverse fra loro. Questi elementi potrebbe essere condivisi anche da tutti quegli esercizi che inducono stress in modo volontario: digiuni, isolamenti e deprivazioni sensoriali (spesso presenti nei riti d’iniziazione), ma anche pratiche come la respirazione connessa od Olotropica.

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Etnobotanica 8: Acorus calamus, un rizoma aromatico

Acorus calamus DATI ETNOGRAFICI

Mondo antico

Il nome deriva dal termine greco calamos, cioè “canna”, per via della somiglianza con quest’ultima: a quei tempi veniva usato per dare un tocco di odore gradevole agli ambienti chiusi, soprattutto nelle chiese. Il nome del genere Acorus proviene da coreon, una malattia degli occhi diffusasi in Grecia per cui si somministrava il calamo aromatico. Ippocrate ne conosceva le proprietà medicinali, compare anche negli scritti di Dioscoride e Teofrasto.

Gli antichi Romani lo consideravano un potente afrodisiaco e lo associavano a Venere [1]. Alcuni resti di calamo aromatico sono stati rinvenuti nella tomba di Tutankhamen in Egitto [2]. La pianta veniva impiegata nell’antico Egitto per la produzione di profumi, oltre che nel trattamento della linfadenite cervicale [3]. Gli arabi lo lodavano come rimedio per i reflussi gastrici.

Viene menzionato 3 volte nella Bibbia: Dio istruisce Mosè affinchè prepari un olio santo per ungere tabernacolo, Arca dell’alleanza e altri oggetti rituali. La ricetta comprende mirto, franchincenso, cannella, calamo, cassia, galbano e spezie dolci (Esodo 30:23,24,34). Veniva coltivato nei giardini di Salomone (Salomone 4:14) e venduto nel mercato di Tiro in Libano (Ezechiele 27:19). Viene citato anche nel IV papiro di Chester Beatty.

L’Acorus calamus era un ingrediente della pozione d’amore medievale prescritta da Zacutus Lusitanus, famoso medico portoghese. Veniva impiegato dalle streghe nella preparazione del flying ointment insieme a solanacee delirogene ed altre piante.

Nativi americani

Il geografo Americano Sauer scrisse che il tubero di Acorus calamus veniva usato dai nativi americani prima che fosse scoperto dagli occidentali bianchi [4]. Le tribù delle praterie gli attribuivano poteri mistici, e i Pawnee ne cantavano le lodi durante le cerimonie misteriche. Gli sciamani Siouani del Nord Dakota lo utilizzavano nella loro danza sacra. Le tribù Cree e Ojibway lo masticavano durante le lunghe spedizioni di caccia come per alleviare la fame ed avere più energia.

La pianta viene associata al topo muschiato (Ondatra zibethica) che ne va ghiotto. Una leggenda dei Penobscot dice che un il topo avesse detto a un uomo di esserne la radice e dove potesse trovarlo. L’uomo, svegliatosi, andò a raccoglierla e ne fece una medicina per curare le sue genti dalla peste e, forse, anche dal colera.

I Chippewa lo inalavano contro il raffreddore, per i problemi bronchiali in una preparazione inclusiva di Xanthoxylon americanum, Sassafras variifolium e Asarum canadense. Dakota, Omaha, Winnebago e Pawnee lo masticavano o ne facevano un infuso, polverizzato veniva bruciato sulle braci per inalarne il vapore e liberare le vie aree.

I Cree ne facevano un infuso per trattare mal di testa, mal di denti e dismenorrea. I gruppi delle paludi masticavano la radice per curare faringiti ed altri problemi alla gola. Gli Abnaki bevevano il decotto tiepido di calamo come rimedio per meteorismo e flatulenza. I Sioux lo consumavano contro i disturbi gastrici, ne inalavano i fumi per alleviare il mal di testa. Lo applicavano localmente come anestetico e cicatrizzante. Lo masticavano durante le battaglie per instillare coraggio e potenziare la resistenza dei guerrieri. Lo davano ai cani da guardia per renderli più feroci, ci foreggiavano anche i cavalli per farli diventare più veloci.
Le donne Menominee la macinavano insieme a radice di sanguinaria e legno di cedro come rimedio per l’irregolarità mestruale. I Blackfott del Montana lo impiegavano come abortificente. I Meskwaki lo applicavano esternamente sulle bruciature [5].

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Alberi-fungo e funghi nell’arte cristiana

Alberi-fungo, Gianluca ToroProseguendo con le segnalazioni editoriali, ecco la nuova uscita di Gianluca Toro, chimico in campo ambientale ed esperto di composti psicoattivi naturali in etnobotanica ed etnomicologia, nonchè autore di numerosi saggi e libri, tra cui Ketamina: un anestetico psichedelico (estate 2020). Si tratta di Alberi-fungo e funghi nell’arte cristiana. Origini e sviluppo di un’iconografia – oltre 500 pagine con circa 300 illustrazioni in bianco e nero (più di 100 le rappresentazioni fungine). È autopubblicato dallo stesso autore, a cui ci si può rivolgere per maggiori dettagli e per l’acquisto (25 euro il prezzo di copertina).

Obiettivo primario della ricerca è quello di seguire origine e sviluppo iconografico che hanno portato dall’albero all’albero-fungo stilizzato e all’albero-fungo vero e proprio nell’arte cristiana in senso lato. Si arriva al fungo naturalistico passando per forme intermedie, tentando di definire il maggiore o minore grado di intenzionalità con cui l’artista intese rappresentarle e il messaggio associato. Gli indizi considerati sono rappresentati dalla morfologia, la rappresentazione di un eventuale effetto psicoattivo, il tipo di scena e l’ambientazione, le dimensioni relative e posizione e la relazione con altri elementi della scena stessa, mentre i significati ipotizzati sono quello iniziatico-esoterico, indicazione della rilevanza di una scena, di un personaggio, di certe qualità o di un’azione, morte e resurrezione, maligno-demoniaco, alimentare, naturalistico e decorativo e numerico.

Per quanto concerne il nostro ambito specifico, le specie psicoattive riconoscibili e illustrate nel libro sono principalmente l’Amanita muscaria e la Psilocybe semilanceata, con prevalenza di quest’ultima, insieme ad alcune possibili rappresentazioni di specie di Panaeolus che non è sempre agevole riconoscere non avendo caratteri morfologici peculiari come le prime due specie. E come si legge nell’introduzione:

Le immagini individuate rispecchiano la principale differenziazione esistente in natura tra le specie di funghi psicoattivi, vale a dire quelli appartenenti alla classe biochimica isossazolica, corrispondenti essenzialmente all’Amanita muscaria, e psilocibinica, corrispondenti alla Psilocybe semilanceata e la specie di Panaeolus. Nonostante l’Amanita muscaria sia piú vistosa e facilmente riconoscibile rispetto alle specie psilocibiniche, sembra che queste ultime siano piú adatte a esprimere le tematiche dell’arte cristiana, il che rispecchia la distinzione tra gli effetti. Probabilmente l’Amanita muscaria era soggetta a una certa tabuizzazione.

Il testo offre una copiosità di dati etnomicologici, partendo dal Mondo Antico (greci, latini, romani) fino al Medioevo e oltre, integrati da una panoramica di leggende, racconti e altre testimonanze. Non mancano gli elementi di valutazione della rappresentazione fungina, con dettagli sui caratteri esteriori, la rappresentazione dell’eventuale effetto psicoattivo, l’ambientazione e altri riferimenti utili.

Più in generale, si chiarisce come le rappresentazioni fungine nell’arte cristiana deriverebbero da un contesto piú vasto e implicherebbero una tradizione micologica di tipo religioso, filosofico ed esoterico con origine nell’antichità. E non è certo un mistero che la cultura cristiana assorbí elementi tradizionali legati ai funghi per esprimere così il messaggio micologico in modo esoterico. Senza dimenticare che queste immagini e l’iconografia specifica rappresentano un contesto importante per la ricerca etnomicologica, confermando il fatto che quest’ultima era conosciuta ed eventualmente impiegata nella vita quotidiana.

Depenalizzazione cannabis: referendum e proposta di legge

ReferendumCannabis.itQualcosa si muove e stavolta sembra con forza anche in Italia. A pochi giorni l’una dall’altra sono partite la raccolta delle firme (online) per chiedere la consultazione referendaria sulla depenalizzazione della coltivazione casalinga della cannabis e una proposta di legge parlamentare.

Il quesito referendario chiede di intervenire sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative rispetto all’uso personale. Occorre raggiungere 500.000 firme  entro il 30 settembre: ad oggi ne sono state raggiunte 220.000 (in 48 ore).

L’iniziativa si aggiunge alla recente approvazione, presso la commissione Giustizia della Camera, del testo unificato che introduce analoghe depenalizzazioni, pur se l’iter per la discussione in aula di una tale proposta di legge è ancora lungo.

Passi questi che rientrano nel contesto più ampio, anzi potremmo dire globale, che vuole porre  fine alla Guerra alla droga lanciata mezzo secolo fa (dagli Usa al resto del mondo), ribadendo la necessità di pianificare gli scenari successivi, cioè la Peace On Drugs. Entrambe le iniziative puntano a rimuovere lo stigma sociale e la criminalizzazione di chi fa uso di sostanze illegali – augurandoci che ciò funga da apripista anche per gli psichedelici che sono al centro della nostra rete Psy*Co*Re. Un  progetto che non si occupa  strettamente di questioni politiche, ma vuole stimolare la circolazione della conoscenza, le attività di studio e di ricerca e la mediazione istituzionale intorno a queste piante e sostanze, come specificato nel nostro Manifesto.

Ambito cui ovviamente rientra  la legalizzazione delle “droghe”, enteogeni inclusi: passaggio obbligato per ampliare, appunto, la ricerca scientifica e terapeutica; per informare correttamente su pregi, difetti e limiti delle varie sostanze; per sviluppare spazi culturali collaborativi e condivisi; per tenere d’occhio la corsa all’oro medico-psichedelico e molto altro.

D’altronde la fine del proibizionismo appare in piena sintonia con il mutato clima culturale (ancora una volta, a partire dagli Usa) e con la volontà dei cittadini, puntellata da prestigiose testate scientifiche e da vari movimenti politici.  Come spiega anche Michael Pollan nel suo ultimo libro: “Le elezioni [in Usa] del 2020 hanno fornito numerose prove del fatto che gli elettori hanno superato i politici nel riconoscere sia i fallimenti della War On Drugs sia il potenziale di alcune sostanze illecite come potenti strumenti di guarigione”.

Non a caso lo stesso movimento psichedelico ha registrato diversi successi: nel maggio 2019 Denver fece storia  diventando la prima città a depenalizzare i funghi contenenti psilocibina per uso personale. Evento seguito da altre formali decisioni locali (Ann Arbor, Oakland, Santa Cruz, Somerville) mirate a depenalizzare il possesso e l’uso personale delle ‘piante enteogene’, inclusive di funghi psilocibinici, peyote, ibogaina. Nel giugno scorso il Senato californiano ha approvato un’analoga proposta di legge, la prima a livello statale: pur se ora congelata a causa della chiusura dell’attuale sessione legislativa, verrà ripresentata con maggior forza e consenso alla prossima di gennaio 2022.  E gli attivisti giurano che nel 2024 si arriverà a depenalizzare tutte le “droghe” in Stati quali California, Colorado e Washington.

Si tratta di una serie di passi cruciali per una riforma sulle politiche in tema di “droghe” a livello federale, così da “liberare” quelle incluse nella lucchettata Tabella I del Controlled Substances Act voluto da Richard Nixon nel 1971. Un percorso che non può non estendersi ad altri Paesi e sostanze, inclusa l’Italia e la cannabis.

 

Corsi e ricorsi delle “piante maestre”

Continua ad espandersi anche in Italia l’attenzione verso la psichedelia e gli stati non ordinari di coscienza in senso lato, particolarmente in ambito editoriale, a conferma di un’ondata del tutto inedita già segnalata di recente. Stavolta è il turno di un’opera originale curata da Tania Re, psicoterapeuta gestaltista specializzata in Antropologia della Salute ed Etnomedicina. Il suo Tania Re, Stupefacenti e proibiteStupefacenti e proibite: le piante maestre, fresco di stampa presso le edizioni Amrita di Torino, offre un contributo puntuale lungo questo percorso di ampio respiro.

Una delle tesi centrali del libro è quella rimarcare come, in molte regioni del mondo, da tempo immemorabile gli esseri umani hanno appreso e condiviso le proprietà curative delle  piante “di conoscenza” e continuano a farne un uso accorto ancor’oggi:  tabacco, coca, oppio, ma anche sostanze di derivazione vegetale come psilocibina e ibogaina. Invece da oltre mezzo secolo i governi occidentali hanno deciso di bollarle come “droghe”, ovviamente illecite, criminalizzandone gli utenti e bloccandone di fatto la ricerca con ricadute negative per la  società tutta.

Dobbiamo quindi smettere di demonizzare tali piante e sostanze, per impegnarci piuttosto a studiarne e informarne sugli aspetti e sulle potenzialità,  oltre che a sperimentarne gli effetti in prima persona nei contesti e  modalità opportuni. Va cioè affermata la libertà di scelta terapeutica e la ripresa degli studi scientifici in materia, avviata da qualche anno soprattutto nel mondo anglosassone, ma anche in Spagna, Olanda, Repubblica Ceca, Israele, Svizzera.

C’è poi un altro punto cruciale che affiora ripetutamente: sono le “piante maestre” ad aprirci le porte a quella parte di realtà a cui non si può accedere da uno stato “ordinario”. Non a caso, per alcuni popoli tradizionali, la “vera” vita è quella vissuta nel sogno, mentre la vita “reale” altro non è che un’ombra del sogno. Il tabacco, per esempio, è considerato la pianta che apre la mente, mentre l’ayahuasca è tradizionalmente riconosciuta essere quella che apre il cuore. Insieme, le due piante sono tra i principali “maestri della foresta” da cui poter trarre grandi insegnamenti.

Concezioni, o piuttosto “visioni”, che possono senz’altro aiutare l’umanità e che quindi meritano di essere valorizzate proprio all’interno del cosiddetto “progresso” occidentale, evitando però di puntare al profitto e/o di cannibalizzarle senza scrupoli. Ovvero:

Sradicare l’uso della pianta dal contesto curativo tradizionale si rivela una scelta pericolosa, come è avvenuto quando il tabacco, da pianta in uso per cerimonie collettive a beneficio della comunità, è diventato una maledizione collettiva.

Contesto e cerimonie da salvaguardare e rispettare per affermarne così i benefici complessivi. Lo ribadiscono le storie vissute dalla stessa autrice, oltre che da alcuni amici e colleghi (incluse nella prima sezione di ciascun capitolo) a riprova del concreto aiuto psico-terapeutico offerto dalla medicina tradizionale e naturale. A conferma non manca una panoramica sulle prime indagini scientifiche degli anni ’60 e soprattutto sul recente revival della medicina naturale e ancor più di quella psichedelica (pur se ancora illegale).

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Etnobotanica 7: Passiflora caerulea, un potenziale MAO-inibitore

MEDICINA TRADIZIONALE
La Passiflora caerulea veniva coltivata dagli Aztechi che la usavano come pianta ornamentale e come rimedio per disturbi urinari, fratture ossee e contusioni della pelle.

Nella medicina popolare argentina, le foglie vengono consumate per trattare la dissenteria, il frutto come digestivo e la parte aerea come spasmolitico.

Passiflora caeruleaCon foglie e radice preparano anche un decotto contro i parassiti intestinali; la tisana a base di parte aerea viene impiegata come agente antinfiammatorio, ipotensivo, sedativo e diuretico.
Inoltre viene lodata per le sue proprietà antimicrobiche utili nel trattamento di catarro, polmonite [1].

In Brasile è nota come maracujá-laranja per via del colore arancione e viene utilizzata principalmente come sedativo, analgesico ed ansiolitico naturale, ma sono note applicazioni contro scorbuto, ittero, disturbi mestruali e gastrointestinali [2].

Nella medicina popolare delle Mauritius si preparano delle tinture e degli estratti a base di fiore della passione per trattare diverse condizioni nervose.

In Italia la Passiflora caerulea veniva consumata come antispasmodico e sedativo.

FARMACOLOGIA

Ansiolitico, sonnifero, sedativo
La parte aerea di Passiflora caerulea contiene dei flavonoidi non identificati dotati di alta affinità per i recettori delle benzodiazepine, le concentrazioni di questi composti sono troppo basse perchè i dosaggi tradizionali siano efficaci in acuto. Tuttavia sembra che l’assunzione cronica possa incrementare nel tempo i livelli di benzodiazepine nel cervello con conseguente modulazione dell’omeostasi dello stesso [3].

La crisina, un flavone isolato dalla pianta, ha mostrato significativi effetti ansiolitici privi di componente sedativa e miorilassante nei modelli animali agendo come agonista parziale sui recettori delle benzodiazepine [4]. Secondo altre fonti, l’estratto di fiore della passione ha un effetto comparabile all’oxazepam [5].

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Intellettualizzazione o Visione? Il registro dell’esperienza psichedelica

Psychedelic ExperienceRiceviamo e volentieri pubblichiamo questo vero e proprio “trip report” di un autore che preferisce rimanere anonimo. Un resoconto interessante e personale, ma anche “dotto”, vista l’esperienza e le conoscenze psicologiche dell’autore stesso, attento alle problematiche della riduzione del danno e soprattutto del rischio collegato al consumo di queste molecole.

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Intellettualizzazione o Visione? Il registro dell’esperienza psichedelica.

Una riflessione su come siamo noi presenti durante lo stato non ordinario di coscienza, o come l’hic et nunc ne determini l’integrazione nel quotidiano futuro.

Questo scritto si propone di analizzare, da un punto di vista psicologico, secondo le teorizzazioni apprese nel corso dei miei studi universitari, l’esperienza psichedelica.
Quest’ultima sempre soggettiva, intima, interpretata dal solo sguardo di chi la vive.
Ogni generalizzazione a riguardo è da considerarsi un tentativo di approssimazione. Avvicinarsi ad una realtà comunque mediata da chi ne fa parte.
Perché oltre all’oggetto di realtà, questo quasi inconfutabile, vi si intersecano set e setting, in un logos continuo, l’uno ad influenzare l’altro, e viceversa.

Provare a formalizzare un campo di definizione è un’opera ardua ma stimolante, nelle speranze di chi scrive, utile a chi legge, per avvicinarsi alla psichedelia in modo consapevole, attutendo i possibili rischi; o guardarsi alle spalle nel proprio cammino, con nuove prospettive per proseguirlo, sempre più incuriositi.
Ben consci che l’obbiettivo primario non è postulare teoria “dura”, ma generare altri meravigliosi, liberi, dubbi.

Siamo sdraiati sotto il sole in un prato, e nel frattempo riflettiamo sul senso della vita.
Le nostre emozioni si sono impadronite di noi o viceversa?
Ci sovviene un flashback percettivo emotivo d’infanzia, che ristruttura la nostra visione su noi stessi, da una prospettiva inaspettata…
Ma allo stesso tempo una nuvola violetta, con forme caleidoscopiche, si avvicina alla massa luminosa lassù, sicuramente non lo stesso sole a cui siamo abituati. Lo sentiamo irradiare energia solare pura. Entrarci dentro le membra, irrorandole di un calore enteogeno, mentre l’erbetta soffice ci solletica, ondeggiando soavemente.

Lo switch fra due esperienze così disparate, in pochissimi secondi, è compreso nella gamma di effetti degli allucinogeni.
Sostanze non solamente in grado di inebriare i sensi, sconvolgere la percezione, distorcendola in modi che comprendono la completa gamma: dal sublime, all’atroce; ma anche di liberare i nostri canoni di pensiero dalle rotaie prestabilite, inibendo quella default mode network (1), pilota automatico della coscienza in autoruminazione, che ci chiude nelle nostre incertezze, privati della determinazione a cambiarci e a cambiare il contesto.
Pensieri offuscati si diradano e nuove prospettive nettate prendono così forma.

L’assuntore si trova indi d’innanzi l’oceano delle possibilità, ma difficilmente si sentirà perso. Che la strada intrapresa sia quella interpretativa, letteralmente “rivelatrice della mente” (2): la folgorazione sulla via della conoscenza; o diversamente quella che conduce verso ammalianti allucinazioni: il canto delle sirene di odissea memoria, generalmente si sentirà come preso per mano, condotto da una forza superiore.
Salvo imprevisti.

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Michael Pollan ci riprova, tra oppio, caffè e…mescalina!

A tre anni di distanza dal suo ultimo bestseller internazionale, How To Change Your Mind, di cui è in lavorazione la mini-serie per Netflix, Michael Pollan torna in libreria con il sequel This Is Your Mind On Plants: indagine a tutto campo sugli effetti di tre piante/sostanze psicoattive, assai diverse tra loro ma usate variamente dall’Homo Sapiens fin dalla notte dei tempi: oppio, caffè e mescalina.

Michael Pollan 2021Come si legge di primo acchitto nell’introduzione, si tratta dell’ultima “indagine personale” di un percorso avviato dall’autore oltre 30 anni fa per indagare al meglio il rapporto tra noi stessi e il mondo naturale in senso lato, dalle incursioni culinarie in vari ambiti e Paesi alle contaminazioni culturali alle nuove frontiere della consapevolezza umana e sociale.

Premesso che il nostro è un giudizio totalmente indipendente, come l’intero progetto-network di Psy*Co*Re, il libro interessa solo parzialmente il nostro ambito e presenta le sue brave luci e ombre. Soprattutto il lettore scafato, o chi prevedeva un approfondimento del precedente lavoro puntato a svelare la “psichedelia per le masse”, resterà deluso. Chi è invece alle prime armi o mosso dalla curiosità, probabilmente si farà prendere dalla trama avvincente e potenzialmente ideale per una sceneggiatura cinematografica, come per i libri precedenti di Pollan.

D’altronde ormai sul tema il materiale online, sempre fresco e assai variegato, non manca affatto, grazie anche alla forzata conversione in streaming di convegni ed eventi vari. Qui di psichedelici se ne parla poco, appunto, solo nella terza sezione dedicata alla mescalina, puntando piuttosto a un obiettivo più ampio, sempre nel contesto generale di cui sopra. Ovvero: dato che da sempre gli esseri umani usano (e useranno) “droghe” di varia natura, è bene venirne a patti e limitarne gli effetti negativi. Ribadendo il fallimento globale della War on Drugs, e la necessità di pianificare i possibili scenari successivi, cioè la Peace On Drugs.

Posizione  d’altronde in piena sintonia con il mutato clima culturale (in Usa soprattutto) e la volontà dei cittadini, puntellata da prestigiose testate scientifiche e da vari movimenti politici, E ribadita dallo stesso Pollan nelle prime apparizioni nei talk show TV (a parte gli ovvi riflettori sulla caffeina), in un lungo ma godibile podcast-intervista con Tim Ferris e soprattutto nel recente editoriale sul New York Times. Dove il suo messaggio si fa ancora più chiaro:

Dopo mezzo secolo speso a fare la guerra alla droga, gli americani sembrano pronti a chiedere la pace. Le elezioni del 2020 hanno fornito numerose prove del fatto che gli elettori hanno superato i politici nel riconoscere sia i fallimenti della War On Drugs sia il potenziale di alcune sostanze illecite come potenti strumenti di guarigione.

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Etnobotanica 6: Lactuca serriola e lactucarium

Il nome Lactuca deriva da lactus che in latino identifica il latte. Infatti la pianta, una volta incisa, secerne un abbondante liquido bianco e lattiginoso.

Lactuca_serriola Gli antichi Greci associavano la lattuga selvatica all’impotenza maschile e la servivano durante i funerali. Erodoto la menziona come pietanza degli dei Persiani del 400 a.C..

Gli antichi Romani la usavano come afrodisiaco ed analgesico: si dice che Augusto le avesse dedicato una statua dopo essere stato guarito da una malattia mortale.

Il naturalista Plinio il Vecchio ne descrive le proprietà nella sua Naturalis Historia. Gli Egiziani estraevano dai semi un olio molto pregiato dalle proprietà afrodisiache e promotrici della fertilità oltre che analgesiche e narcotiche.

MEDICINA TRADIZIONALE
Nella medicina Unani la Lactuca serriola, nota come kahu, viene impiegata come sedativo, ipnotico, antisettico, espettorante, antitussivo, purgante, vasorilassante, diuretico ed antispastico. Viene considerata molto efficace contro bronchite, asma e pertosse.

Il lattice essiccato, chiamato lactucarium, viene consumato come rimedio per insonnia, ansia, nervosismo, iperattività, tosse secca, pertosse e dolori reumatici. Si usa anche la parte aerea fresca o essiccata sotto forma di decotto, infuso o tintura alcolica; dai semi si estrae un olio dalle proprietà antipiretiche ed ipnotiche [1].

In Afghanistan selezionano le radici fresche dalle piante fiorite e le incidono lateralmente diverse volte. Quindi le lasciano a mollo per una notte in un recipiente pieno d’acqua a temperatura ambiente, facendo attenzione a proteggerlo dalla luce che danneggia il preparato e lo rende inefficace. L’infuso viene filtrato e consumato prima dell’alba come rimedio per la malaria [2].

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Aldous Huxley: ricerca sugli stati di coscienza e ricerca spirituale

Nell’odierno, variegato e dinamico scenario globale che ruota intorno alla psichedelia l’approccio multidisciplinare è divenuto centrale. Al contempo è cresciuto lo sforzo per operare lungo percorsi sempre più collaborativi e interconnessi. Questioni ben note agli addetti e ripetutamente menzionate dai “pionieri”, ma non di rado dimenticate o sottovalutate, sull’onda della spinta all’ipermedicalizzazione o dei facili entusiasmi per il nuovo revival. Si tatta cioè di procedere consapevolmente verso una vera e propria Maturità Psichedelica capace di produrre frutti duraturi e validi per tutti.

Un contesto in cui torna utile rivisitare l’impegno di uno di tali “pionieri”, l’autore britannico Aldous Huxley (1894-1963), nel chiarire l’intreccio fra stati non ordinari di coscienza e dimensioni di tipo spirituale, come anche l’intermediazione tra opere di letteratura e il mondo della ricerca scientifica e filosofica. Da qui l’attualità di riproporre questa riflessione firmata da Mario Lorenzetti* e apparsa sul bollettino della Società Italiana di Studi sugli Stati di Coscienza (SISSC), N°2 del settembre 1998.

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L’importante ricerca di Aldous Huxley sugli stati non ordinari di coscienza e sul rapporto che questi hanno con le dimensioni di tipo spirituale è a volte difficile da dimensionare, data da un lato l’importanza dell’opera dell’autore e la ‘prescientificità’ di essa dall’altro lato.

Troppo spesso viene apprezzato dal punto di vista narrativo, prescindendo dai suoi saggi, o dalla veicolarità dei suoi romanzi. Huxley si era posto il problema di una letteratura incapace di mediare con il mondo della ricerca scientifica e filosofica. In The  Final Revolution (intervento pubblico tenuto il 25 gennaio 1959 all’Università della California a San Francisco), Huxley precisa il suo pensiero a proposito:

‘Come mettere assieme il meglio di entrambi i mondi: il mondo della specializzazione, che è assolutamente necessario, e il mondo della comunicazione generale e di interesse nelle più grandi questioni della vita, che è anche necessario. Penso che l’uomo di lettere abbia un contributo da portare. Egli può, se sceglie di associarsi un po’ con gli specialisti, fare qualcosa per formare un ponte tra scienza e mondo in genere’(1).

Ma l’uomo di lettere ha per Huxley anche un ruolo veicolare nel produrre e rendere pubbliche con gli scritti riflessioni e intuizioni di carattere prescientifico:

‘Gli uomini di lettere(…) hanno prodotto alcuni estremamente interessanti risultati in questo campo, che possono essere chiamati prescientifici. Per esempio, se si paragona la psicologia medievale o la psicologia del XVI secolo con la poesia del Canterbury Tales di Chaucer, si percepisce l’enorme superiorità del letterato sull’uomo di scienza del periodo. Lo stesso è vero per Shakespeare. (…) La psicologia ufficiale, la psicologia scientifica non comincia a mettersi alla pari con la psicologia letteraria prima della seconda metà del XIX secolo. E’ incredibile percepire l’aridità della dottrina della psicologia ufficiale del periodo in paragone della psicologia letteraria di alcuni romanzieri come Balzac o Dickens o George Eliot o Dostoyevsky e Tolstoy. Si è sbalorditi di fronte alla povertà delle formulazioni scientifiche se paragonate alla straordinaria ricchezza e sottigliezza di questi uomini, attraverso osservazioni e intuizioni esposte nei loro romanzi’.(2)

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